
La Venta - Oman Expedition

Per gli amici dell’Associazione “La Venta Esplorazioni Geografiche”, storico partner di Ferrino, il 2024 si è aperto con una nuova affascinante spedizione.
Questa volta meta del viaggio è stata la Qanaf Cave, un grande inghiottitoio che si apre al termine di uno uadi che drena un bacino idrografico di oltre 10 chilometri quadrati sull’altopiano di Jabal Samhan, nella provincia di Dhofar nell’Oman meridionale.
Qui, su invito dello speleologo e ricercatore francese Philippe Audrà, l’associazione La Venta ha provato a superare i limiti ambientali e umani imposti fino ad ora da questa grotta.
A partire dagli anni Novanta la Quanaf Cave è già stata teatro di numerose spedizioni esplorative che si sono però sempre arrestate nei pressi di un grande lago sotterraneo, dove l’elevatissima concentrazione di anidride carbonica rende l’aria irrespirabile. Gli uadi, infatti, sono quasi sempre in secca, ma, in occasione di rare ed eccezionali piogge, gli inghiottitoi come Qanaf, raccolgono enormi volumi d’acqua, riempiendosi completamente e raccogliendo grandi quantità di materiali organici trasportati dalla corrente. Il materiale organico trascinato nella grotta lentamente va in decomposizione, producendo anidride carbonica e calore, andando a creare un ambiente quasi infernale per l’uomo.
Una sfida decisamente fuori dall’ordinario, che ha richiesto agli speleologi dell’Associazione La Venta l’adozione di nuove strategie e tecnologie per esplorare in sicurezza un luogo così estremo.
Abbiamo chiesto a Luca Imperio e Tullio Barnabei, storici membri dell’Associazione, di raccontarci qualcosa di più sulla spedizione in Oman e ne abbiamo approfittato anche per fare quattro chiacchiere più in generale sulla passione e il senso dell’esplorazione speleologica.
Tullio, la Venta ha alle spalle una storia di oltre trent’anni, fatta di grandi e avventurose esplorazioni speleologiche, eppure non avete esitato a definire la vostra ultima spedizione in Oman come un’esperienza “oltre i limiti”. Cosa ha reso così speciale questa esperienza?
Questo andare “oltre i limiti” va sicuramente chiarito. Non si tratta tanto di una sfida al rischio fine a se stessa, quanto piuttosto del superamento di un limite tecnico ed esplorativo, che abbiamo affrontato, come nostra abitudine, con grande prudenza e consapevolezza. In Oman siamo stati invitati da altri speleologi che, nelle loro esplorazioni, si sono trovati di fronte all’ostacolo di questa grotta con altissime concentrazioni di CO2 e, conoscendo la nostra predisposizione a metterci in gioco con sfide di questo tipo, ci hanno chiesto di intervenire per capire se si potesse andare oltre il limite che loro avevano raggiunto. Abbiamo deciso di andare a vedere cosa si poteva fare e così è nata questa prima spedizione, che è stata una sorta di sopralluogo, dal quale però sono venute già molte risposte alle nostre domande.
Luca, dal punto di vista tecnico qual è stata la particolarità di questa spedizione?
Il problema principale da risolvere era quello della concentrazione di CO2 che in queste grotte arriva a superare anche livelli del 5%, ben quindici volte superiori a quelli dell’aria che normalmente respiriamo. Praticamente un’atmosfera altamente tossica per l’essere umano. Per muoverci in queste condizioni abbiamo dovuto sperimentare, adattando tecnologie che non sono state pensate per l’utilizzo speleologico. Abbiamo scelto di adattare delle attrezzature che normalmente si usano in ambito sanitario e che ci hanno consentito di recuperare e concentrare il poco ossigeno presente. Il sistema si è rivelato abbastanza funzionale, anche se necessita di numerose migliorie. Nonostante queste apparecchiature, infatti, muoversi e respirare laggiù è stata una cosa veramente pazzesca: era come avere un macigno sui polmoni! Da questa esperienza siamo partiti per realizzare un nuovo tipo di concentratore più performante e adatto all’uso negli ambienti ipogei. Questo è il nostro concetto di andare oltre il limite: ovvero sperimentare, fare scienza ed esplorazione… e tornare per raccontarlo!
Tullio, questo genere di esplorazioni sul campo però non sono una “semplice” ricerca in laboratorio: nonostante tutti gli accorgimenti un margine di rischio rimane sempre. Inevitabile quindi la classica domanda che tutti gli esploratori prima o poi si sentono rivolgere: perché andare a cacciarsi in quelle situazioni? Cos'è che muove lo speleologo? È l’amore per la scienza o c’è anche qualcos’altro?
Ciascuno ha la sua risposta personale a questa domanda. Ma direi che noi di La Venta abbiamo di sicuro un modus operandi che ci accomuna. Il nostro obiettivo non è fare esplorazione fine a se stessa. Quello che portiamo avanti sono progetti strutturati e interdisciplinari, che si sviluppano e crescono nel tempo, progetti legati alla geologia, alla biologia, all’archeologia, alla paleontologia. Partendo dall’esperienza fatta in Oman, ad esempio, stiamo lavorando allo studio del nuovo respiratore, così come a suo tempo avevamo ideato una speciale tuta per affrontare le condizioni climatiche estreme della Grotta dei Cristalli in Messico. Le esperienze vissute in ogni spedizione aprono il campo a svariate direzioni di studio e ricerca. In Oman, ad esempio, a causa della concentrazione di anidride carbonica abbiamo dovuto affrontare 48 ore di disintossicazione dopo ogni discesa; eppure lì vivono tranquillamente diversi tipi di animali che escono ed entrano dalla grotta senza alcun problema. Il più frequente è il pipistrello, un mammifero proprio come noi. Come riesce a farlo, come ha modificato la sua fisiologia per adattarsi? Sono tutti ambiti di ricerca che si schiudono ad ogni passo avanti: ogni limite superato rimanda ad uno successivo ancora da esplorare.
Luca, queste ricerche hanno delle ricadute pratiche? L’esplorazione del mondo ipogeo può avere un riscontro rispetto alle grandi tematiche contemporanee della sostenibilità della nostra vita sul pianeta?
A proposito delle ricadute pratiche dell’esplorazione e della ricerca scientifica, il nostro compianto amico e maestro Giovanni Badino, speleologo e fisico delle particelle, spesso ribadiva che i suoi studi di fisica, apparentemente, non avevano al momento alcuna utilità, però lui sentiva il dovere di portarli avanti, perché un giorno sicuramente avrebbero trovato un’applicazione concreta. Lo stesso si può dire della speleologia esplorativa. Là sotto, ad esempio, ci sono risorse preziosissime per l’umanità, prima fra tutte l’acqua. Basti pensare a un paese come l’Oman, che ha anch’esso problemi di siccità e di accesso alle risorse idriche. Conoscere la disposizione delle grandi riserve sotterranee di acqua come quella che noi abbiamo esplorato e capire come in futuro li si potrebbe usare in modo sostenibile è sicuramente un campo di ricerca che avrà ripercussioni pratiche fondamentali sulla vita di milioni di persone. Poi c’è il grande tema del cambiamento climatico. Pensiamo alla concentrazione di CO2 nell’atmosfera, che oggi è purtroppo ancora in aumento: comprendere come gli organismi che vivono nelle grotte si sono adattati a condizioni estreme di anidride carbonica, potrebbe essere un giorno un grande aiuto per la nostra stessa sopravvivenza. In tutto questo noi speleologi abbiamo un ruolo particolare: non siamo scienziati, ma apriamo la strada, abbiamo le competenze e le capacità tecniche per addentrarci negli ambienti ipogei e raccogliere la documentazione da cui gli scienziati possono partire per sviluppare le loro ricerche.
Tullio, guardiamo la cosa sotto un altro aspetto: che cos’è la bellezza delle grotte per voi?
Al di là della classica scenografia ipogea, con le stalattiti, le stalagmiti, le colonne, ecc, per me il fascino delle grotte è l’incognito, ciò che non si vede, è questo pianeta sotterraneo che non conosci. Una delle cose che più mi affascinano sono i fiumi, le cascate e i laghi sotterranei, perché sono acque nascoste, oscure, normalmente limpidissime e pulite. Per me la bellezza è quella, è la morfologia, sono queste forme scavate dall’acqua nel buio nell’interno delle montagne.
Luca, qual è invece la bellezza che tu ricerchi laggiù?
Anche per quanto mi riguarda la bellezza che cerco e trovo laggiù è proprio quella dell’ignoto. Mi viene in mente a tal proposito la sensazione che provai tanti anni fa durante una spedizione nel Vietnam del Nord: stavamo camminando nel salone di questa grotta e, ad un certo punto, voltandomi, vidi che dietro di me c’erano solo le mie impronte nel fango e davanti a me nulla! Ero io il primo ad essere arrivato lì, a vedere delle cose che nessuno aveva mai visto! Quindi, se vai oltre gli aspetti più palesi, anche oltre le meravigliose concrezioni che, nell’immaginario di tanti, identificano ed esauriscono la bellezza delle grotte, scopri che c'è veramente un universo tutto nuovo e stupefacente. Sotto i nostri piedi ci sono mondi incredibili come la Cueva de los Cristales di Naica, di cui ha parlato Tullio: un gigantesco geoide in cui ci si muove fra enormi cristalli, un luogo decisamente alieno che non ha paragoni sul nostro pianeta. Oppure le grotte che ho esplorato in Iran: vere e proprie montagne alte fino a 1400 metri, fatte interamente di sale, nelle cui cavità ci siamo addentrati ammirando le formazioni e i colori più incredibili. La cosa ancora più incredibile, poi, è che questi mondi alieni non sono disabitati: là sotto vivono e prosperano diverse specie di animali molte delle quali ancora ci sono ignote.
Tullio: vedere la bellezza nel buio, in luoghi spesso umidi e freddi, dove magari occorre sdraiarsi, strisciare nel fango in cunicoli asfittici e affrontare pericoli che non sempre si possono tenere sotto controllo… Certo che è un concetto estetico molto particolare! Cosa vi porta ad apprezzare queste cose? Insomma, che “tipi umani” sono gli speleologi?
Io dico spesso scherzando che lo speleologo è l'animale più pericoloso che puoi trovare in grotta… Un po’ più seriamente posso dire che lo speleologo in fondo è un eterno sognatore. Lo si potrebbe definire anche un ricercatore fallito, nel senso che sa che ricercherà tutta la vita qualcosa che forse non troverà mai e, se anche arrivasse a trovarla, agli occhi della maggioranza delle persone, quella cosa avrà probabilmente ben poco valore… Ma penso anche che sia l’atto stesso della ricerca quello che ci motiva e che ci chiama costantemente laggiù. Durante i corsi, agli allievi dico sempre: sarai uno speleologo quando non avrai più fretta e desiderio di uscire dalla grotta. Poi gli speleologi sono anche una tribù. Una tribù di “strani”. Perché, per fare quelle cose, per sottoporti a certe fatiche, anche a certi rischi, devi avere motivazioni che nella normalità non si trovano facilmente. Però siamo degli “strani” molto consapevoli: per scendere in grotta, soprattutto quando si fa esplorazione, e per farlo portando a casa dei risultati - oltre alla pelle, ovviamente - bisogna essere molto consapevoli di ciò che si sta facendo e dei rischi che siamo disposti ad assumerci.
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